“Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.” (L. Ariosto)

La ricorrenza del 25 aprile è, per quelli della mia età, un motivo di riflessione, sul sentiero dei ricordi e dei sentimenti, legati ad immagini, fatti, esperienze di vita vissuta. Ed è vita vissuta anche ciò che abbiamo allora imparato, perché eravamo giovani, o anche solo bambini, perché assistevamo ad eventi indimenticabili e ascoltavamo i discorsi degli adulti, carichi di dolore, paure, speranze, recriminazioni, rabbia e voglia di ricominciare tra macerie, distruzione e miseria. Essere usciti vivi dalla guerra mondiale, da quella civile e dai rancorosi eventi del primo dopoguerra, fu per da molti percepito come un’insperata fortuna, un segno del destino da accettare come sicuramente buono, liberatorio. E rasserenante, nonostante tutto. Così  la vita ricominciò.

Ciò che mi ha lasciato però sempre un po’ perplesso e dubbioso sono state, negli anni, le celebrazioni del 25 aprile. Inevitabilmente dubbioso, direi, perché ciò che vissero i protagonisti, i vincitori per un verso e i vinti per un altro, è certamente cosa diversa dalla propaganda, dalle opposte ricostruzioni storiche, dalle attribuzioni di gloria o d’infamia, dai giudizi settari e dalle autoesaltazioni o autoassoluzioni di comodo. Sono anche inevitabilmente diversi i sentimenti e i valori di riferimento, di allora e d’oggi, e le cose che contavano per la dignità di ciascuno. Chi vince “ha ragione” e detta la storia a chi la scrive e a chi l’impara. Mi rimane però un ricordo di fatti e sentimenti, su cui poco la storia indugia. Il senso del bene comune, la fedeltà agli ideali, l’onore e il coraggio; il senso del dovere, dell’amore per la propria gente e la propria terra; il valore dell’impegno personale e financo del sacrificio per raggiungere mete più elevate; la generosità verso i deboli e gli indifesi furono spesso sentimenti comuni a chi militò nell’uno e nell’altro degli schieramenti contrapposti, così come, purtroppo furono in molti casi simili le espressioni meno nobili, o più basse, dell’animo umano. La differenza, si dirà, sta nelle scelte politiche, nelle motivazioni ideali dei contendenti. Se i pregi e i difetti degli uomini paiono essere sempre gli stessi, di fatto invece non sono del tutto identici. Diversi i condizionamenti del contesto, diverse le esigenze del momento, diverso il quadro valoriale che comunque chiamava a commisurarsi e a scegliere, di fronte a dilemmi e a nodi della coscienza, irripetibili in quelle forme e forse inimmaginabili. 

Noi oggi celebriamo il 25 aprile, ma tra celebrazioni ed eventi di un’epoca c’è uno iato, una discontinuità e una disconnessione, probabilmente crescente. Questo è un tema che ci porterebbe a scrivere un trattato, più che un articolo, ponderoso di valutazioni storiche e politiche ma anche psicologiche e sociologiche. Di fronte ad una prospettiva di tanta complessità, mi fermo, prudentemente, ma non rinuncio al tentativo di dare a chi legge almeno un’idea, un piccolo spunto od esempio di ciò su cui vorrei soffermarmi. E cioè sul portato di un’educazione, che pare si stia perdendo, che si estrinsecava in un particolare senso del rispetto, del decoro, della modestia e della riservatezza, espressa come gentilezza e nobiltà dell’animo. Non sono un  “laudator temporis acti”. Sono convinto invece che certi valori e significati del vivere debbano essere nuovamente riproposti e reinterpretati, certamente in rapporto ai tempi d’oggi, ma non perduti. Un esempio di quel che dico lo desumo, come sempre, da storie personali o della mia famiglia, e dall’osservazione diretta di esempi viventi o che vissero e mi ispirarono con il loro esempio e il loro stile di vita. Tale fu, ad esempio un mio zio, un personaggio di spicco, amatissimo da tutto il parentado: Remo Zedda, pluridecorato pilota da caccia della Regia Aeronautica, di cui si possono trovare notizie navigando sul web. Remo, dopo l’8 settembre 43, fece la sua scelta. In mezzo allo sbandamento generale delle forze armate italiane, raggiunse gli altri piloti fedeli al Re, nel sud d’Italia, in ottemperanza a quel giuramento di fedeltà che aveva a suo tempo prestato, e su cui non poteva prevalere il rapporto con l’alleato d’oltralpe, al cui fianco una sciagurata guerra l’aveva mandato a combattere. Questa scelta di Remo fu la stessa di tanti altri che condividevano le sue convinzioni.

Un dato spesso ignorato dalle celebrazioni del 25 aprile sta proprio in questo segnale d’inizio di una fase della guerra che mette gran parte delle forze armate italiane nelle condizioni di concorrere ad avviare un processo determinante che porterà alla “liberazione”, due anni e mezzo dopo quei fatti. Ma, tornando a Remo, quella scelta certamente difficile e lacerante in quel tempo e in quel contesto, ai miei occhi dà e dava alla figura dello zio un risalto speciale. E comunque l’animo e il carattere dell’uomo, trova una significativa espressione anche  in un episodio precedente a quell’8 settembre. Lo desumo da un suo ricordo personale, registrato in un libretto di memorie curato, a suo tempo, da mio padre. Racconta Remo:
“Dovevamo proteggere coi nostri aerei un convoglio navale italiano che dalla Sicilia si recava in Libia. Onde sviare dal convoglio eventuali attacchi aerei nemici provenienti dalla vicina isola di Malta, la nostra squadriglia di Macchi 202 si diresse sull’isola allo scopo di attirare su di sé la caccia avversaria inducendola ad inseguirci e ad allontanarsi così dallo spazio di mare che dovevamo difendere. La manovra riuscì perfettamente. Dalle basi aeree di Malta i caccia inglesi si levarono in volo e ci vennero incontro. Fu subito un carosello infernale di aerei che sfrecciavano nell’aria e mitragliandosi si producevano in acrobazie incredibili, “looping”, cabrate, “tonneau”, picchiate, fra scoppi che punteggiavano il cielo di nuvolette bianche. Un caccia inglese in cabrata, con un mezzo “tonneau, piegandosi “a coltello” riuscì a saettare nello strettissimo spazio fra il mio e l’aereo del mio compagno. Non potei far a meno di ammirarne  il coraggio e l’abilità. Poi, in un attimo, me lo trovai a tiro: centrato in pieno, il caccia inglese, cominciò a precipitare in una scia di fumo. Con un sospiro di sollievo vidi però che il pilota inglese era riuscito a catapultarsi fuori dal suo abitacolo, ed ora scendeva dolcemente verso il mare, appeso al suo paracadute. Sentii ammirazione per lui e volteggiandogli attorno in larghi cerchi lo accompagnai verso la salvezza, salutandolo come usiamo noi piloti facendo ondeggiare le ali. Lui capì e mi rispose con un cenno della mano. Mentre lo vedevo galleggiare sull’acqua, sostenuto dalla suo salvagente, segnalavo per radio le coordinate per i possibili soccorsi al pilota abbattuto.

A guerra terminata un giorno mi ritrovai in un aeroporto della Sardegna, impegnato con i miei colleghi  in attività connesse al nuovo quadro di alleanze. Ad un certo punto atterrò su quel campo un aereo militare da cui scese un colonnello pilota inglese. Naturalmente ci furono presentazioni reciproche. Mentre conversavamo il colonnello inglese notò sulle nostre divise il distintivo della nostra Squadriglia, lo stesso che da sempre appariva dipinto sui nostri aerei da caccia. Con fare meravigliato disse, rivolgendosi a me e a tutto il gruppo di piloti italiani .”Ho già visto quel distintivo. Uno di voi mi ha abbattuto su Malta, poi molto cavallerescamente mi ha assistito nella mia discesa, salutandomi. Mi piacerebbe conoscerlo e ringraziarlo.” Capii subito che l’episodio mi riguardava personalmente, ma non volli palesarmi: non volevo passare per uno che si voleva vantare di aver abbattuto un superiore in grado, e tacqui.” 

“Cavallieri antiqui”. In quel “tacqui” denso e profondo, c’è tutto: l’etica, la modestia, la dignità, il rispetto. In una parola, quella nobiltà d’animo che vorrei fosse sempre trasmessa fra le generazioni, e preservata.