Caro Francesco…

Hola, Jorge Mario, buon giorno!

Anzi, un augurio più laico, “hoy, para Ud., sea un dìa peronista!”

La mia non è una classica confessione da dietro la grata e da genuflesso, ma una chiacchierata a viso aperto, da hombre a hombre, come hai fatto di recente e senza tanti preamboli anche confrontandoti col più superbo rivendicatore del proprio incrollabile ateismo.

In fondo, se dialoghi con chi ostentatamente nega l’esistenza di Dio e manifesti deferente stima nei suoi confronti senza l’ombra di volerlo neppure avvicinare all’ovile, perché non ascoltare uno come me, che già fa parte, indegnamente fin che si vuole, della tua stessa stalla?

Ti parlo di me peccatore, ma senza pretendere alcunché. In fondo, stando alla tua stessa domanda retorica dell’altro giorno, chi sei mai tu per condannarmi o darmi l’assoluzione? Visto che, mentre mi ascolti, non indossi neppure una stola, posso vuotare il sacco tranquillamente stando in piedi, finalmente in segno di riacquistata libertà e dignità, dopo venti secoli di oscurantismo e di rotule arrossate? Grazie, Jorge Mario!

Dopo migliaia di confessioni tradizionali, finalmente non mi è più dato di denunciare dolore, pentimento e contrizione, perché ormai al bucato della mia anima screziata di macchie e ombre ci pensa l’inesauribile misericordia di Dio, turbo-lavatrice onnipotente che, come hai pubblicamente sottolineato tu stesso, vanta ormai un’indiscussa primazia sui millenari precetti sempre uguali e immutabili della Chiesa.

Comincio per sommi capi il mio “èlenchos” o litania di biasimevoli colpe, consapevole che, in forza delle garanzie postconciliari, in ogni caso saranno condannati solo gli errori e non l’errante, e per me è già un bel passo avanti verso l’autoassoluzione.

Innanzitutto ammetto di essere un intemperante dissipatore di ricchezze destinate ai poveri. Il mio anello nuziale, infatti, è d’oro massiccio e neppure placcato, anziché pauperisticamente taroccato come il tuo.

Sono anche un incorreggibile “cristianello di pasticceria”, diabetico frequentatore di confetterie devozionali intitolate alla mia Mamma celeste, come il Santuario di Maria Ausiliatrice o della Consolata di Torino, quest’ultimo significativamente affrontato allo sdolcinato “Bicerin” sulla piazzetta antistante, di cui sono affezionato cliente.

Vengo adesso al mio peccato più grave a patto che tu non mi chieda quante volte ci sono cascato.

Riconosco di essere un battezzato decisamente “sciocco”, hai ragione. Infatti, tento e ritento di adempiere come posso quel primordiale comandamento, solennemente sancito dalla Pentecoste, di evangelizzare, fare apostolato e convertire i lontani, increduli e non credenti, che popolano il mio prossimo. Talora ho osato addirittura “fare proselitismo” tra i dubbiosi, il che mi dicono sia stato da te recentemente cassato e aborrito come una gran sciocchezza.

Abbi pazienza, Jorge Mario, se a fin di bene ho creduto più al senso etimologico e letterale di quel verbo, “fare proselitismo”, che significa far sopraggiungere e sopravvenire, più che al suosenso volgare e comune, tanto caro ai postconciliaristi che vi intravvedono dispregiativamente una forzatura dell’altrui libero arbitrio e dignità creaturale.

Lo so che il proselitismo è poco dialogico, peccaminoso e indigesto ai modernisti, amanti invece di altri “ismi” più alla moda come il discussionismo, il pragmatismo, il relativismo, il populismo, il pauperismo e, dopo il tuo avvento, il peronismo, ma mi sembra eccessivo prendermi drasticamente dello sciocco da te per così poco.

Pazienza se tu mi apostrofassi sciocco, o anche peggio, te lo concederei, per un mio screzio in materia etica. Per esempio perché aderisco al relativismo della già condannata “morale della situazione”, barattando la volubilità della mia coscienza con l’intransigenza dell’immutabile legge morale tradizionale.

Prima di chiedere il condono ti confesso un’ultima mia irreparabile inadempienza. Si tratta di un peccato di analfabetismo religioso, caro Jorge Mario, che tuttavia penso mi porterò dietro sino al temuto “regolamento di conti”.

Non mi arrendo infatti a “leggere i segni dei tempi”, il martellante “mantra” trionfale dei modernisti, cui sommessamente continuo a preferire “leggere i segni da sempre fluenti dell’eterna e immutabile volontà di Dio”.