(intelligonews.it) - «Ora toccherà anche a Tunisia, Marocco, Algeria e Libia».

«Non possiamo definire un golpe quello che sta accadendo in queste ore in Egitto, perché la popolazione festeggia la liberazione dal regime dei Fratelli Musulmani». Magdi Cristiano Allam, intervistato da IntelligoNews, né è sicuro: «Se proprio vogliamo parlare di golpe, definiamolo golpe popolare, introducendolo come nuova categoria».

Perché non possiamo parlare di colpo di stato in Egitto?

«Così com’è stato un errore madornale parlare di primavera araba – l’ho definita la più grande menzogna mediatica del terzo millennio –, è altrettanto sbagliato parlare ora di golpe militare quello che sta avvenendo in Egitto».

Perché?

«Quattordici milioni di egiziani sono scesi in piazza e hanno raccolto 22 milioni di firme (tutte certificate tra l’altro) per chiedere le dimissioni del presidente egiziano Mohamed Morsi. Se proprio volessimo parlare di golpe (come ha fatto questa mattina il Corriere della Sera), dovremmo parlare di “golpe popolare”, introducendolo come nuova categoria. Di solito i colpi di Stato si accompagnano ad immagini tristi di militari che irrompono sulla scena con la gente chiusa in casa succube di un’ingiustizia. Le è sembrato di vedere queste scene?».

Non proprio.

«Ecco: ieri in Egitto la gente era gioiosa, festeggiava. Nelle piazze c’erano fuochi d’artificio, gli elicotteri che sorvolavano la città esponevano la bandiera nazionale…».

Quindi?

«Quindi possiamo definire quello di ieri  un intervento dell’esercito attuato nel momento in cui la popolazione, in maggioranza, si è riversata nelle piazze per chiedere le dimissioni del regime dei Fratelli Musulmani».

Dove hanno fallito Morsi e il suo governo?

«Si sono rivelat inadeguati a gestire uno Stato moderno e a rispondere alla necessità primaria di dare pane e lavoro agli egiziani, ai giovani soprattutto. Pensi che su 83milioni di egiziani, oltre il 40% vive al di sotto della soglia di povertà».

Possiamo dire che è tramontata la via islamica?

«In Egitto abbiamo assistito al fallimento dei Fratelli Musulmani nella loro stessa patria (nacquero nel 1928 proprio in Egitto). Il mio auspicio, ora, è che il loro fallimento in Egitto possa, per effetto domino, avvenire anche in Marocco, in Tunisia, in Algeria, in Libia. E spero che l’Occidente impari  la lezione e la smetta di sostenere, soprattutto in Siria, i terroristi islamici di Al Queda. Deve rendersi conto che tra un regime militare laico, non democratico così per come noi concepiamo la democrazia, e una burocrazia islamica di per sé dittatoriale, è preferibile un regime militare».

Anche se, come ha appena detto lei, non è democratico?

«Bisogna porgli dei paletti, esigendo il rispetto dei diritti fondamentali della persona ed esigendo una dialettica interna che non necessariamente  deve tradursi nello scimmiottamento di quello che è la democrazia nel mondo. Proprio perché le situazioni cambiano».

Quella egiziana è cambiata?

«L’Egitto da settemila anni ha sempre avuto dei regimi centralistici, sostanzialmente autocratici».

Ma queste primavere arabe sono servite oppure no? Stiamo assistendo a un ritorno al passato?

«No, perché è sbagliato parlare di primavera araba immaginando che siano state delle rivolte popolari atte a stabilire la democrazia».

Cosa hanno rappresentato, dunque?

«Rivolte per il lavoro e per l’occupazione abilmente sfruttate dai Fratelli Musulmani per cogliere l’opportunità di strumentalizzare le elezioni ed accedere al potere. E questo l’hanno potuto fare con la connivenza con l’Occidente, che vi ha stretto un patto fin dal 2005, dando a loro l’opportunità di essere legittimati in cambio della collaborazione nell’uccidere Bin Laden».

Ci sono riusciti?

«Solo inizialmente. Perché i Fratelli Musulmani, oggi, sono al potere in diversi Stati del Medio Oriente mentre Al Queda è più forte di quanto non lo fosse l’11 settembre del 2001».