Sì avete capito bene, l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro… ma soprattutto sul saperlo vendere. Certo, la Costituzione Italiana non contiene anche l’ultima parte della frase, ma in realtà dovrebbe. Perché lo Stato Italiano non compie di fatto lo sforzo necessario a scoprire, determinare, valorizzare ed inserire la propria forza lavoro nell’ambito della sua produttività, perciò se l’articolo 1 concettualmente incita i cittadini a lavorare per tenere in piedi la nostra repubblica ma non contribuisce adeguatamente a favorirlo, deve incitare prima di tutto a sapersi vendere.

Come si sa, una piaga devastante che affligge il nostro povero paese, gossip sessuali a parte, è la disoccupazione, specie giovanile, per mancanza di lavoro: non dobbiamo tuttavia trascurare un aspetto essenziale, ossia la mancanza di connessione tra chi lo offre e chi lo domanda.

Parliamo tanto di incentivi, di misure fiscali, di abbassare il costo del lavoro, di corsi di formazione, ma abbiamo dimenticato il punto fondamentale da cui tutto dovrebbe partire, il collocamento. Attualmente il collocamento si riduce ad un modulo da inviare per ottenere il sussidio di disoccupazione, perché è risaputo che quasi mai, specie e paradossalmente per le persone laureate, si viene assunti grazie all’ufficio di collocamento.

Ma se lo Stato si disinteressa del collocamento, non potrà più valorizzare le reali risorse di cui ha bisogno, o addirittura, non potrà nemmeno conoscere o anche scegliere le sue risorse, lasciando che il mercato del lavoro venga gestito da organizzazioni private che si regolano su criteri prettamente commerciali, infischiandosene delle reali utilità dello Stato, bensì assoggettandosi al migliore offerente, spesso proveniente da altri paesi e quindi di fatto consegnandoci alla “concorrenza”.

Il collocamento è uno strumento potenzialmente determinante, non solo per aiutare tutti noi a servire il nostro paese e a sentirci orgogliosi di farlo, ma anche per tracciare le politiche del nostro sviluppo, nonché, non da ultimo, per collegare il mondo della scuola al mondo del lavoro. Una università che funziona deve necessariamente avvalersi di un collocamento che funziona, altrimenti sarà solo un nido di aspirazioni idealistiche senza futuro. Sì, perché noi viviamo di pane, automobile, casa, bollette, tutte cose che dobbiamo pagare con i soldi, i quali costituiscono uno strumento che lo Stato ci impone sulla base delle attività appunto “monetizzate”, perciò di fatto è lo Stato che regola le attività per le quali possiamo chiedere e pretendere le nostre necessità. Se lo Stato è assente in tale “monetizzazione” del lavoro, il denaro si autoregolerà da solo (non dimentichiamoci le cause della crisi) e saremo perciò suoi schiavi, inducendoci sempre di più a lavorare solo per farlo circolare senza effettuare alcuna reale attività produttiva, come accade sempre più spesso al giorno d’oggi.

Quindi è lo Stato che deve effettuare questo studio, perché lo Stato, espressione di organi politici, a loro volta frutto di una scelta democratica, deve manifestare con forza la propria politica nazionale in ciò su cui si fonda principalmente, come appunto testimoniato dal primo articolo della Costituzione.

Per questo motivo non è concepibile che lo Stato abdichi tale funzione ad organismi privati, o almeno non è concepibile che rimanga indifferente e che non si attivi per diventare un concorrente o un regolatore efficace nella gestione del mondo del lavoro, anche perché da questo dipende una voce di spesa pubblica non indifferente, cioè i sussidi per la disoccupazione.

Senza poi contare che lo Stato non sa di fatto misurare la capacità lavorativa dei suoi cittadini, da cui dipendono molti effetti giuridici ed anche giudiziari. Perché lo Stato, ripeto, non tiene una efficace contabilità della sua forza lavoro e di fatto impone a tutti in primis a sapersi vendere, a costo di trascurare le proprie capacità effettive (magari ricorrendo a mezzucci e favori per accaparrarselo), e, solo dopo, a contribuire con il proprio lavoro: al giorno d’oggi la fase più stancante e più importante è la ricerca, o meglio, l’autoprocacciamento di lavoro, meglio se il più sicuro possibile, perciò la fase successiva, lo svolgimento effettivo del lavoro, diventa talvolta una sorta di riposo in cui ci si può concedere anche di non far nulla o quasi. Magari se ciascun cittadino fosse indotto spontaneamente a lavorare con uno strumento efficace che ne valorizzi le sue reali capacità, tali sforzi sarebbero risparmiati, la flessibilità (opportunamente tutelata) diventerebbe un’opportunità e non un’angoscia, a vantaggio della produttività: si potrebbe persino fare a meno dei sindacati per “blindare” i posti di lavoro. E magari i giovani non avrebbero più scuse per essere “bamboccioni” (termine, si badi bene, che odio).

È necessario quindi organizzare il sistema di collocamento pubblico alla stregua di un’attuale agenzia privata di lavoro presente in internet, promuovendo, o meglio, concretizzando quella informatizzazione e telematizzazione già prevista dalla legge (con l’aiuto della firma digitale) ma che per ora sono rimaste letteralmente sulla carta, nonché estendendo con maggiore rapidità ad ogni campo quei collegamenti efficaci tra istruzione e mondo del lavoro già operanti in alcuni settori, sempre crescenti, in cui le università / scuole prevedono tirocini obbligatori pre-titolo.

Ne sarebbero felicissime anche le piccole e medie imprese che non possono o non vogliono investire troppo denaro per affidare la ricerca del personale ad organizzazioni private. Non dimentichiamo che l’Italia si sostiene soprattutto grazie alle micro, piccole e medie imprese, anche perché di fatto il nostro sistema fiscale induce l’impresa a non espandersi (piuttosto preferisce frazionarsi), quindi tale realtà spinge a contenere i budget per la ricerca del personale.

È inoltre necessario che lo Stato intensifichi gli studi a lungo termine sulle prospettive di lavoro, non solo dal punto di vista statistico ma anche propositivo, in modo quindi da prevedere la richiesta generale di lavoro , ma anche incentivare quel lavoro che contribuisce al bene del nostro paese.

Lo Stato, in conclusione, deve conoscere bene e quindi predisporre i mattoni della sua produttività, fondamentale per far valere la sua presenza nel mondo, altrimenti si ridurrà a mero esattore e punitore, incrementando sempre più il distacco con i suoi cittadini.