Ad ogni 25 aprile, o nei giorni precedenti o seguenti, viene regolarmente pubblicata su qualche giornale o qualche sito internet, la tristemente famosa fotografia dei cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti fucilati, appesi a testa in giù in piazzale Loreto a Milano. E’ un’immagine storica che ormai tutti conoscono, e certo non lascia indifferenti, qualunque sia la prospettiva ideologica dell’osservatore. E’ l’immagine utilizzata come simbolo inconfondibile della fine d’un’epoca.
Ma se la consideriamo in ogni suo possibile significato, anche disgiunto dallo specifico evento che rappresenta, quell’immagine ci può riportare alla memoria altri episodi della storia, e non solo nostra, nei quali si tramanda e descrive l’epilogo esistenziale di personaggi che furono capaci di suscitare l’entusiasmo popolare, di diventarne condottieri o capi assoluti, trasformando non di rado il potere acquisito in forme di dura oppressione, di libertà negata. E che per mano di quelle stesse masse popolari che avevano sedotto e guidato, furono travolti e abbattuti, in un tripudio liberatorio di rivalsa, di ricercata giustizia, nei casi migliori, o solo di opportunismo, di vendetta e di ferocia in molti altri casi. Basterebbe ricordare Masaniello e più ancora Cola di Rienzo, che nei suoi ultimi giorni e negli accadimenti che ne segnarono le ultime ore, sembra anticipare stranamente, o forse no, molti dei “passaggi “ che in una sequenza assai somigliante portarono alla morte di Mussolini. Paiono tante le coincidenze, fra i due personaggi. Cola, preda del suo stesso delirio di gloria, del suo sogno di restaurare l’antica grandezza di Roma. Di nuovo Cola, che nel momento della ribellione popolare al suo arbitrio e ai sui eccessi, fugge travestito sperando di salvarsi. Sei secoli più tardi, Mussolini fuggirà poi travestito da soldato tedesco, e non si salverà, come Cola. E ancora Cola riconosciuto e catturato, dapprima senza che alcuno gli torcesse un capello, perché il personaggio era di tale rilievo che “nullo omo era ardito toccarelo”. Ma all’improvviso questo riguardo cessa, e una lama gli squarcia il ventre. Il tutto accadeva sulla scalone di palazzo Colonna, a Roma, nel 1354. E poco dopo il primo colpo, quanti altri che erano stati suoi sostenitori, diventati nemici carichi d’odio, furono addosso a Cola, già morto, e continuarono a percuoterlo, lo crivellano di colpi, fra ingiurie e grida. “Allora l’uno, l’altro e li altri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette…Alla prima morìo, pena non sentìo.” (dalla “Cronica” di un anonimo romano del XIV secolo). Lo scempio del cadavere durò ore, fino a ridurlo alla stregua di “un grosso bue macellato”. E poi legato per i piedi e appeso abbastanza in alto, perché tutti potessero vedere la miserabile fine di Cola di Rienzo. Un’ immagine medioevale che pare riproporsi sei secoli dopo. Quante analogie con la fine di Mussolini. Molti personaggi di rilievo della Resistenza presero però le distanze, e alcuni con estrema durezza, dal truce spettacolo rappresentato da quei cadaveri di cui si era fatto scempio, appesi in piazza. E se pure ai fascisti poteva esser fatto carico di violenze e delitti efferati, ci fu chi fra gli uomini della resistenza, di fronte a quei fatti, non volle accampare valutazioni “giustificazioniste” e soprattutto non volle abdicare al proprio senso dell’onore. Anche perché non si voleva che l’orrore di quella piazza oscurasse non solo l’insurrezione, ma anche i nomi di coloro che, per alti e limpidi ideali, avevano sacrificato la propria vita. A ragione possiamo citare come esempio fra tanti, il nome di Salvo D’Acquisto.
Come non ricordare Ferruccio Parri che definì quel che avvenne a piazza Loreto “esibizione da macelleria messicana”. Lo stesso Sandro Pertini, che diventerà poi Presidente della Repubblica, di fronte a quella scena disse che l’insurrezione si era “disonorata”. Persino in un manifesto fatto affiggere a cura del CNL in quei giorni, nel quale era scritto che in ogni caso l’orrore di piazza Loreto trovava origine nella responsabilità del fascismo e di Mussolini, si faceva cenno all’ “esplosione di odio popolare che è trasceso in quest’ultima occasione a eccessi…” Il giornale socialista “Avanti!” commentò: “Ieri in una luminosa giornata di sole si è svolto uno spettacolo orribile. Necessario come tanti orribili supplizi …” E il partigiano Lampredi, che forse assistette o partecipò alla fucilazione di Mussolini, affermò: “La Resistenza non attinge a piazzale Loreto per fissare le immagini della sua vittoria”. Un modo elegante con cui, senza rinnegare l’orgoglio per l’eliminazione del “duce, prendeva le distanze dallo scempio del cadavere esibito. Qualcuno si lasciò anche andare ad un’autocritica ancora più esplicita e dura, esprimendo un atroce dubbio. Fu Leo Valiani, personaggio inattaccabile e di indubbio spicco della resistenza, che disse di non poter escludere con certezza che “quella folla che insultava il corpo morto del duce non fosse la medesima delle adunate oceaniche”. A parte il dubbio di Valiani, a chi ancora vede e usa l’immagine dei cadaveri appesi come emblema “glorioso” dell’epopea resistenziale, consiglierei almeno di riflettere sulla frase di Lampredi secondo cui, e vale la pena ripeterlo, “la resistenza non attinge a piazzale Loreto per fissare le immagini della sua vittoria.”
Se settanta anni dopo c’è ancora qualcuno che non l’ha capito, non è solo una questione d’immagini. Chi, a Milano, il 25 aprile 2014 ha inneggiato alla “morte dei due marò” sembra voler dimostrare, a torto, che non c’è stata nemmeno la vittoria dei valori della resistenza. E di quelli più autentici, avulsi dall’estremismo e dalla faziosità, su cui si può appuntare, discernendo con cura nella storia i personaggi e i fatti che lo meritano, il dovuto riconoscimento.