Sembrerebbe una questione di poco conto, tanto più a fronte dei problemi, e tutti gravi, che dobbiamo fronteggiare. Però di poco conto non è il principio che vi è sotteso. E poiché con l’avvicinarsi del Natale la stampa e i media in genere tornano ad occuparsi della questione, evidentemente quel principio è tanto rilevante e controverso, da radicarsi in prese di posizioni polemiche che ignorano un corposo e pluriennale dibattito, nonché i passi in avanti che sull’argomento sono stati fatti.
Ogni anno, in questa stagione, tutto ricomincia daccapo, come se nulla fosse stato detto, come se nulla fosse stato chiarito, come se nulla fosse stato capito. E allora la questione è seria e visto che riguarda il Natale, o facciamo ora un ultimo tentativo di orientarci sulla questione, o andiamo fuori tempo massimo. Anche se relativamente fuori tempo, perché al prossimo Natale la questione si ripresenterà, quasi certamente. Tutto cominciò una decina d’anni fa, allorché, in una scuola materna, le maestre decisero di non allestire il presepio con i bambini per non turbare la sensibilità dell’unico bimbo musulmano frequentante. In conseguenza di quella scelta, non si festeggiò neppure il Natale a scuola. Giornali e radio riferirono il fatto, che divenne "notizia". Ricordo il profondo dissenso verso quella rinuncia espresso in una intervista radiofonica dallo scrittore islamico Tahar Ben Jelloun, che trovava controproducente e assurdo togliere ai bambini il piacere di una tradizione legata ad una festa, tanto radicata nel sentimento e nel vissuto e particolarmente in quello infantile. Di più, diceva in sostanza Ben Jelloun, che senso ha togliere o negare ai bambini il gusto di una tradizione popolare, segno di una bimillenaria cultura, di diffusione planetaria, radicata nel sentimento, nell’arte, nella letteratura, nella storia, nella vita di ogni ceto sociale e specialmente in un paese come il nostro?
Quante forme di cultura radicano nelle varie religioni e da esse traggono la loro specificità ed essenza, persino quando, nel tempo, si discostano dai loro significati originari? Perché pensare che non debbano aver spazio a scuola, se di culture si tratta? E aggiunse: non fare il presepio è una stupidaggine, anche perché nel Corano Cristo è considerato un grande profeta e molto rilievo è attribuito alla figura della Madonna, vergine e madre anche per i musulmani. Cosa questa che pochi sanno, anche fra gli insegnanti.
Fu una lezione memorabile, quella dello scrittore musulmano. Chiara al punto che avrebbe dovuto chiudere la questione “presepi” per sempre. E nessun’altra voce del mondo islamico sentì la necessità né di controbattere né di aggiungere una virgola alle parole di Ben Jelloun. Oltretutto Ben Jelloun aveva posto la questione assai correttamente, indicando implicitamente una distinzione fra” tradizione culturale” e “culto”. Di fatto il presepe non appartiene da un punto di vista dottrinale né alla liturgia né al culto in senso stretto. Ricordate quando, all’inizio delle lezioni, le maestre facevano recitare una preghiera in classe? Una pratica che si configurava come “culto” e in quanto tale suscitò polemiche, soprattutto allorquando, aboliti i vecchi programmi della scuola elementare che indicavano la religione cattolica come “base e coronamento” dell’azione educativa della scuola dell’obbligo, la scuola pubblica veniva improntata ad una nuova laicità. Un scuola, quindi luogo di cultura, anche religiosa, si badi bene, perché dalle religioni deriva un immenso patrimonio culturale, ma non di “culto”, che si esercita in altre sedi. 
Ecco perché dallo scrittore magrebino ci venne un esempio di buon senso musulmano che ci servì di lezione. Ma purtroppo per poco, o forse per pochi.
Infatti ad ogni nuovo Natale, in qualche scuola della Repubblica, il dirigente o qualche docente si esprime contro il presepe e, guarda caso, sempre in riferimento alla presenza di musulmani fra gli allievi.
E’ così capitò di nuovo, non molto tempo fa. In occasione del Natale, un importante quotidiano nazionale infatti riportava che in una scuola milanese “le insegnanti di religione allestiscono il presepio in una parte dell’istituto abbastanza riservata, dove chi non vuole non è costretto a vederlo”. La frase virgolettata riportava la “versione ufficiale” della scuola. Colpiva quel “non essere costretti a vedere” e quindi, “togliere alla vista”.
Si può capire la buona intenzione e lo sforzo. Si può capire la scelta di non privare i bambini "cristiani" del presepio, evitando nel contempo interferenze con la sensibilità dei "non cristiani".
Tuttavia, la soluzione adottata non pareva risolvere, e nemmeno affrontare, il problema. Emergeva invece, agli occhi di molti, più che un malinteso senso di rispetto per l’altrui diversità, un inconcepibile atteggiamento di immotivata autocensura, una sottomissione e negazione di una propria e non certo vergognosa specificità e identità culturale. I musulmani, se li conoscete bene, non abdicano a nulla della loro specificità religiosa. Anzi esibiscono con senso di superiorità, insito nella loro coscienza religiosa, i segni e gli atti del loro culto.
Il velo sul capo o il volto coperto delle musulmane anche nelle nostre città sono un’esibizione politico–religiosa, come lo è di fatto l’islam, che non è solo religione.
Tendono a mostrare che sono anche qui, con fierezza, e a loro poco importa che le nostre leggi vietino la copertura del volto in pubblico. E’ la loro è una sfida perché per loro Allah e l’unico vero Dio e Maometto è il profeta di Allah. Cristo per loro, ha predicato e preannunciato la venuta di Maometto. Quindi l’islam dovrà essere imposto al mondo intero. Con questo tipo di mentalità, difficile attendersi dal mondo islamico atteggiamenti di autocensura o di correzione del proprio modo di contrapporsi al resto del mondo. In barba alle nostre leggi , sgozzano i montoni in occasione delle loro feste religiose, anche da noi, senza il preventivo stordimento dell’animale per evitargli la sofferenza della lunga agonia necessaria ad ottenere il totale dissanguamento, secondo le modalità della macellazione “halal”. E non sto a enumerare riti e tradizioni cui non rinunciano. Certamente, se fosse una tradizione loro, non rinuncerebbero a fare il presepio. Probabilmente ce lo imporrebbero senza tante storie.
Per chiarire: il tema di questa riflessione non riguarda l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole della Repubblica, e pertanto non è su questo che si vuol esprimere un'opinione. Ci sono leggi al riguardo: leggi vigenti. Su questo ci sono anche opinioni in contrasto, ma la questione che qui si vuol affrontare è un'altra. Una cosa è la dimensione "confessionale" o l'insegnamento di una specifica "fede" religiosa. Altra cosa è la cultura che deriva dalle religioni e dalle conseguenti tradizioni e manifestazioni. La cultura religiosa, in quanto e per quanto mera cultura, trova nella scuola il suo posto privilegiato, come tutte le forme di cultura esistenti. È tutt'altra cosa dall'istruzione confessionale. Non è fede. È conoscenza. Per conoscere e per capire l'arte e la letteratura (e persino la lingua e la mentalità) di questo Paese, interpretabile appieno solo attraverso la cultura derivante dal cristianesimo e dal cattolicesimo, sono certamente utili, se non indispensabili, strumenti culturali che hanno attinto a quelle radici. Il che non si identifica con "la fede". In questo senso, visto che la società cambia, è opportuno che si conosca (per cultura) anche il senso del Ramadan o della festa delle Capanne, così come il Natale e la Pasqua. Senza confondere questioni diverse su piani diversi.
A questo proposito va ribadito che il presepio non è un precetto religioso; non è un atto liturgico; non è un fatto propagandistico, e nemmeno un atto di culto, per quanto di ovvia ispirazione religiosa.
In quanto tradizione popolare è un fatto"culturale". E la cultura non si nasconde alla vista, non offende e non si occulta: si spiega. Si aiuta a capirla, a interpretarla. Il che non significa imporla. Senza chiusure per la cultura altrui, ma soprattutto senza imbarazzo, e tanto meno vergogna, per la propria.
La sensibilità che ci porta ad assumere comportamenti rispettosi dell’altrui diversità, non può prescindere dal rispettare, anzitutto, noi stessi, e dal fatto che comunque il rispetto deve essere reciproco.
La paura, nemmeno dissimulata, dell’integralismo altrui (come se l'integralismo fosse solo"altrui") non deve indurre ad acquiescenze auto-difensive, a mal tollerate rinunce, a occultamenti più o meno parziali e a finti pudori. Si può spiegare a tutti, piccoli e grandi, cristiani e musulmani, che l’espressione di una cultura specifica, se non è in contrasto con le leggi dello Stato, non vuole prevaricare, non costituisce un’ingiustizia, non è un’imposizione. Non deve imbarazzare chi la esprime, né chi non vi appartiene o ne è estraneo.
È certamente apprezzabile che, pur nella legittima manifestazione di una antica tradizione, si pensi a modi d’esprimerla nuovi e rispettosi di una mutata composizione sociale, per attenzione agli "altri".
Ma è certo discutibile che in una società ancora (forse per poco) prevalentemente connotata da una matrice cristiana, si scelga di "nascondere" alla vista, una manifestazione di una sua specifica "cultura". Fosse pure minoritaria, andrebbe tutelata. E minoritaria ancora non è. Se democrazia ha un senso, non solo politico...
Chi pensa di manifestare in modo "riservato" nella scuola le proprie tradizioni, in quanto connesse alla religione, si è mai chiesto quanto sia più macroscopica (e difficile da tenere "riservata") la tradizionale vacanza di quasi venti giorni per il Natale e quasi dieci per la Pasqua? Chiudere la scuole per periodi così lunghi e
per motivi anche di indubbia matrice religiosa non crea imbarazzi a nessuno? Quella sospensione del servizio scolastico non è forse un più pesante condizionamento per chi appartiene ad altra fede religiosa? Altro che presepio.
Certo: fare scuola è sempre più difficile e gli insegnanti sentono sempre di più il bisogno di un supporto e di una tutela. Non si può pretendere che trovino da soli la soluzione a problemi di convivenza interetnica e interreligiosa all’interno delle scuole. Certamente possono concorrere a individuare modi e forme di comprensione, di conoscenza e di tolleranza fra “civiltà”, di cui tanti bambini stranieri immigrati sono inconsapevoli rappresentanti, nonché “portatori sani”.
“Leggendo” le valenze culturali di quelle diversità, senza ovviamente avventurarsi nelle questioni di fede. Impegnandosi, come dovremmo far tutti, a superare gli integralismi. Non è facile, ma non è possibile sottrarsi al compito che la nuova composizione sociale propone allo Stato, alla società e alla scuola. Con una forte richiesta di dialogo, che è fatto per capire altrui mentalità e per far capire la propria. Per convivere in pace, senza nascondersi e senza imporre. Senza atteggiarsi a vittime e senza fare vittime. E senza disconoscere la propria cultura.