Stanno scomparendo del tutto, per “raggiunti limiti d’età”, coloro che vissero la Resistenza da protagonisti. E così pure molti di quelli che all’epoca erano giovanissimi ed ebbero solo ruoli ausiliari nella lotta partigiana. Nel ’44 o ’45 bisognava essere almeno degli adolescenti per avere la funzione di “staffette”, addette al trasporto e al recapito di comunicazioni riservate. Donne e ragazze, insospettabili messaggere, erano preziose per questo compito.

In Toscana fu “staffetta” anche una sorella di mio padre, e io sono uno dei pochi che lo sa. Operava a breve distanza dai luoghi dove un’altra ragazzina, destinata a diventare poi famosa come giornalista e scrittrice, svolgeva lo stesso compito con la resistenza toscana. Era Oriana Fallaci: un nome che farà storcere il naso a qualcuno fra quelli avvezzi a “curvare” la storia a fini di propaganda settaria. Ma la storia è storia.

In un altro articolo (“Il 25 aprile, in un ricordo personale”) raccontai di Dario Tarantino, il “comandante Massimo”, fraterno amico di mio padre. Dario morì trucidato barbaramente dai fascisti nel 45, a Milano. Apparteneva ad una formazione partigiana cattolica. Di lui dovrò scrivere ancora. A seguito della diffusione in internet di quel mio articolo, una persona fino ad allora a me ignota, figlia di una partigiana anch’essa scomparsa, mi inviò via e-mail dalla Germania notizie inedite sugli ultimi anni di Tarantino. Quella signora italiana che mi scriveva da Amburgo, mi raccontò del profondo legame d’amore fra Dario e sua madre, la quale per tutta la vita non riuscì a elaborare completamente il lutto per la perdita dell’amato. Diventata partigiana per amore, raccontò compiutamente la sua storia alla figlia, solo negli ultimi anni di vita. Non ho ancora trovato le parole adatte per raccontare, scrivendo, quella vicenda toccante e delicata, anche per un senso di assoluta reverenza e rispetto per i protagonisti. Dovrò farlo.

Scompaiono così nell’oblio più totale migliaia di altre storie, forse non particolarmente eroiche in senso epico, eppure al par di quelle assolutamente nobili e importanti. Ricordo quegli anni. Io, nato nel 1940, ero un bambino attento a tutto quello che vedevo e sentivo. C’era la guerra e il mondo interiore di noi bambini non era colonizzato e sviato da TV, video-giochi o play-station, come succede oggi. Assorbiti da quel che ci succedeva attorno, vivevamo affacciati sulla realtà e quello era il nostro mondo: occhi e orecchie aperte e memorie quasi “magnetiche”, intente a registrare tutto o quasi, in modo indelebile. Fatti rimasti scolpiti nell’anima, ci furono confermati poi dai nostri genitori, quando, diventati anche noi adulti, ci trovavamo a scambiarci ricordi, nelle serate in famiglia, in quelle atmosfere affettive di autentico legame e verità.

Mi riscopro così oggi a svolgere talvolta il ruolo di “memoria” di eventi lontani, di depositario di “storia orale” tramandata, o anche di “testimone” diretto o indiretto di un passato. E ricordo i reduci del “fronte orientale” che raccontavano d’esser tornati a piedi in Italia dalla Russia. E che rientrati stremati dal Brennero in patria, ricevettero al confine nient’altro che un fiasco di vino a testa, a titolo di accoglienza e conforto. Ricordo mio padre, sergente maggiore della Regia Aeronautica, come tanti suoi commilitoni sorpreso dall’armistizio dell’8 settembre 43, che rimase accanto alla sua famiglia, cui doveva provvedere. A Vigolante, presso Parma, in piena Repubblica di Salò, mio padre riuscì ad evitare l’arruolamento coatto nel nuovo esercito repubblicano e a non farsi deportare in Germania dai tedeschi, che avevano occupato il paesino. Dignitosamente, senza nascondersi, seppe far valere verso tutti le sue ragioni e probabilmente una buona dose di fortuna gli evitò d’ esser passato per le armi. Anche questa, almeno per me, fu “resistenza” a tutti gli effetti. Papà aveva giurato “fedeltà al re”, mi diceva, e dello stesso parere fu suo fratello Remo, pluridecorato pilota da caccia, che dopo l’8 settembre, senza incertezze, salì sul suo aereo e raggiunse il Re in Puglia. Un altro fratello, Angelo, marconista della Marina Militare era già morto nella battaglia navale di Capo Bon, nel dicembre del 41. Valori e dignità furono alla base di una resistenza poco celebrata, che non era e non è solo quella della lotta partigiana, consacrata dalla storia “ufficiale”, ma si espande e ricomprende mille vite di ignoti o dimenticati protagonisti. “Non-partigiani” ma comunque “resistenti” a tutti gli effetti, che seppero difendere la dignità propria e del popolo cui appartenevano, in ogni frangente.

Tanti scrissero diari e memorie, spesso edite in proprio, e diffuse solo tra parenti ed ex- commilitoni, perché l’oblio non cancellasse tutto. Fra questi vorrei ricordare Loris Nannini di Pistoia, ufficiale pilota della Regia Aeronautica, amico e commilitone di mio padre e mio zio. Venne fatto prigioniero in Russia, dopo l’abbattimento del suo aereo, e subì ogni tipo di maltrattamento, torture e violenze dai suoi carcerieri. Per i russi “italiano” era sinonimo di “fascista”, per cui si sentivano esonerati da qualsiasi codice internazionale di tutela dei prigionieri. Affinché rivelasse l’ubicazione dell’improvvisata base aerea italiana nascosta fra le foreste ucraine, Loris Nannini fu interrogato da Nikita Krusciov in persona, proprio quello che sarebbe poi, molti anni dopo, diventato presidente dell’URSS, e che allora era primo segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista ucraino, membro del Consiglio Militare e del Politburo. Con l’ausilio di una interprete Krusciov, seduto dietro una scrivania, interrogò Nannini, il quale rifiutò di dare informazioni, anteponendo la lealtà verso i suoi commilitoni che non avrebbe mai tradito, nonché il proprio irrinunciabile onore di ufficiale. Krusciov tentò con intelligenza e astuzia di far parlare Nannini, il quale seppe replicare a tono, destando la sorpresa dell’inquisitore. Vista l’impossibilità di piegare il prigioniero, Krusciov passò alle minacce, cui Nannini, dando fondo alle proprie capacità di autocontrollo, continuò a rispondere con decisione non priva di toscana arguzia. Finché Krusciov iniziò ad ingiuriare il prigioniero in russo, nell’imbarazzo della interprete che non osava più tradurre quel che sentiva. Nannini però nei mesi di prigionia avevo appreso qualche parola di russo dai suoi carcerieri, e capì. Quindi all’ennesimo insultò, balzò in piedi, afferrò la scrivania e la rovesciò addosso a Krusciov. Immediatamente il soldato russo di guardia atterrò Nannini e gli fu sopra, col calcio del fucile, pronto a colpire. Ma Krusciov fermò il soldato e cambiò completamente tono. Fece rialzare da terra Nannini e lo intrattenne amabilmente parlando delle rispettive famiglie. Poi uscì con lui e con l’interprete nel cortile, dove una decina di ufficiali russi, visto l’arrivo dell’alto personaggio, si schierarono immediatamente sull’attenti. Krusciov presentò a quella qualificata rappresentanza della “gloriosa armata rossa” l’ufficiale italiano, mentre l’interprete traduceva per Nannini quel che veniva detto. Evitando di definire “fascista” il pilota italiano, Krusciov raccontò ai suoi commilitoni l’interrogatorio di Nannini, lodandone dignità e coraggio. “Prendete esempio da questo ufficiale italiano”, concluse Krusciov e strinse la mano a Nannini con grande rispetto e ammirazione. Diventato Presidente dell’URSS, molti anni dopo, Krusciov ad una delegazione di giornalisti italiani che erano andati a Mosca ad intervistarlo, raccontò del coraggioso ufficiale italiano. Racconto che replicò poi, in anni successivi, al Presidente della Repubblica Gronchi e all’on. Fanfani, in visita a Mosca, sollecitandoli affinché fosse per lui possibile rivedere il mai dimenticato Nannini.

Nel 1993 Nannini riuscì a consegnare alla stampa un suo libro di memorie, intitolato “Prigioniero in URSS”- Nannini Editore. A fronte della vicenda dell’interrogatorio di Krusciov, peraltro già riferita vent’anni prima da fonti non autobiografiche, Nannini narra nel suo libro di un altro interrogatorio subìto durante la detenzione in Russia. Questa volta l’inquisitore era Palmiro Togliatti, di cui tutti sappiamo la storia. Nannini fu interrogato assieme ad un soldato italiano prigioniero, incontrato solo in quell’occasione. E il soldato, messo accanto all’ufficiale, serviva all’interrogante per mettere a confronto un “servo” e un “padrone”. Non posso far altro che riportare le parole dell’autore, con brevi stralci tratti dal suo libro. Il racconto inizia con la descrizione di Togliatti.

“L’uomo era bruno, magro, con gli occhiali; indossava una consunta giacca di pelle nera e dei pantaloni scuri dai risvolti sfilacciati…. Mi colpì il suo volto triste ed amaro... “Sono il comunista italiano Mario Correnti”, disse rivolto verso di me. “Mi conosci?” mi domandò, aggiungendo: “ Forse ti ricorderesti meglio di me se ti dico che sulla stampa il mio nome è Ercole Ercoli o Palmiro Togliatti?”.

“Non conosco il suo nome. Non l’ho mai sentito nominare”, risposi.

“E tu mi conosci?” disse, rivolto al soldato. Questi scosse il capo, in segno di diniego. Togliatti continuò in tono inquisitorio, guardando un po’ il soldato e un po’ me: “Quello che ti sta accanto è uno di quelli che hanno sempre sfruttato i lavoratori come te. E’ un reazionario! E’ uno di quelli che, per il bene del popolo, deve essere eliminato”.

Il soldato, un po’ intimidito dal tono sicuro di Togliatti, in un dialetto padano: “Io sono un contadino” -disse- “Non conosco quel signore. Io non l’ho mai visto. Cosa posso dire di lui?”

Togliatti incalzò: “Ma come! Non ricordi quando gente come lui ti faceva mettere la museruola perché non gli mangiassi l’uva durante la vendemmia? Quando gente come lui costringeva le donne a tirare l’aratro nei campi?”. E proseguì. “Questo qui è un parassita della società!” disse, ammiccando verso di me; “E’ colpa anche sua se ti hanno trascinato in una guerra, lontano dalla tua povera casa”.

Togliatti proseguì la sua arringa contro di me e contro ciò che avrei dovuto rappresentare. Il soldato cercava di spiegare che non mi conosceva e che non poteva essere che io lo avessi trascinato in guerra. Ma le sue erano parole troncate sul nascere dall’impeto delle affermazioni, sicure e convincenti, di Togliatti, che non mancavano di sottolineare al soldato la sua secolare povertà economica e culturale. Il soldato, sentitosi umiliato dalla descrizione che Togliatti faceva di lui e della gente come lui “per la sua ignoranza”, “per la sua povertà”, “per la sua casupola”, “per la sua fame secolare”, rispose bruscamente:

“Ma lei è mai stato in Italia?”. Ed aggiunse seccamente: “Io credo proprio di no, perché non parlerebbe così!”. “Io, caro Lei, la fame la sto facendo qui, in questo suo paradiso. A casa mia non è mai mancato nulla! Perché, grazie a Dio, ho molti campi, macchine agricole, e capi di bestiame”. Poi il soldato, squadrandomi un attimo, terminò: “E non so mica se quest’ufficiale qui ha tutta la roba che ci ho io”. (da “Prigioniero in URSS”, di Loris Nannini.)

L’interrogatorio terminò così con un nulla di fatto, per merito del contadino-soldato e per buona sorte di Nannini. Quel che dico non piacerà a certi “benpensanti”, e forse diranno che il mio concetto di resistenza non è ortodosso. Nell’episodio riportato, e in tanti altri consimili, e nelle vicende di tanti piccoli e grandi protagonisti dimenticati, per me c’è tanta autentica resistenza ignorata, quella che non viene celebrata e nemmeno riconosciuta come tale. Ma che fu nobilissima resistenza, fatta di coerenza, onore, orgoglio patriottico, coraggio della verità. Quella che ancora oggi dovrebbe manifestarsi, per ridare dignità e giustizia a questo paese e al suo popolo.