Lo confesso, sono per la monarchia. O, meglio, lo sono diventato. La mia non è stata una conversione improvvisa, una folgorazione sulla via di Damasco, ma un convincimento maturato nel corso degli ultimi dieci anni quando alla mia istintività, col passare delle stagioni, ha preso il sopravvento l’osservazione critica. Eppure ho sempre visto nella forma repubblicana il massimo sia della democrazia che della meritocrazia, in un ambito nel quale le opportunità erano (e sono) praticamente le stesse per tutti i cittadini, indipendentemente dal censo: il presidente della repubblica, come istituzione, rappresentava per me la sintesi e l’apice della forma di stato liberale e meritocratico. Può darsi che fossi condizionato da anni di retorica scolastica (che non mi permetto di disapprovare poiché la ritengo – nella giusta dose – necessaria e benefica) che alla moderna repubblica contrapponeva la meno egualitaria ed obsoleta monarchia; oltretutto, quella italiana, aveva tante colpe da farsi perdonare, in particolare per il comportamento non certo esemplare di Vittorio Emanuele terzo.
Può darsi che lo fossi anche dalla signorilità, dall’imparzialità e dal senso dello stato di tanti presidenti italiani da Einaudi a Cossiga, passando per Leone (sì, proprio Leone, che per grande responsabilità si dimise nonostante fosse infangato da devastanti accuse rivelatesi completamente infondate qualche decennio più tardi, ma quando solo il danno della reputazione poteva essere riparato), o dall’esempio dei presidenti americani del ventesimo secolo (Clinton escluso), che interpretavano il loro ruolo, nelle parole e nei fatti, nell’esclusivo interesse del popolo americano.
Archiviata del tutto la guerra fredda a metà anni novanta, qualcosa è cambiato, in Italia come altrove. A Cossiga è succeduto Scalfaro, la cui faziosità è riconosciuta anche da coloro che ne hanno beneficiato, Ciampi è stato un grigio notaio che nulla ha fatto per rasserenare il clima politico italiano, Napolitano non riesce – e mai vi riuscirà – a liberarsi dall’imprinting sovietico cristallizzatosi lungo svariati decenni di militanza partitica ed intellettuale nel marxismo.
All’estero, poi, le cose non vanno certo meglio: per Clinton, Bush junior ed Obama in USA, Chirac, Sarkozy e Holland in Francia, Putin in Russia, Chavez e gli altri presidenti del sud America, il giudizio della Storia non sarà certo lusinghiero.
Certo, è vero che economicamente taluni regni come la Gran Bretagna, la Spagna, il Giappone, il Belgio (che rimane unito nonostante vi convivano due popoli che non si sono fusi neppure dopo diversi secoli), non se la passano granché bene. Però, quelle nazioni sono orgogliose delle loro istituzioni monarchiche, e mai si sognerebbero di sostituirle con quelle repubblicane; se poi ci trasferiamo nella sponda sud del Mediterraneo, sarà un caso ma solo Giordania e Marocco sono uscite quasi indenni dalle rivolte arabe del 2011.
Per fortuna non tutte le case regnanti fuggirono a Brindisi. Durante la seconda guerra mondiale, la regina di un’Olanda occupata andava a fare la spesa in bicicletta, mentre i suoi dirimpettai belgi non erano da meno. La regina madre nella Londra bombardata (e con Buckingam Palace colpito) si rifiutò di lasciare la città dicendo : "Coi miei sudditi voglio condividere tutto...". E, in tempi più recenti, Juan Carlos di Borbone: è stato lui a restaurare l'ordine costituzionale in Spagna (Franco gli aveva lasciato pieni poteri e carta bianca!) ed a difenderlo poi opponendosi ad un tentativo di colpo di stato militare, rischiando di finire come suo cognato Costantino di Grecia, che per avere tentato di contrastare il colpo di stato dei "colonnelli" fu deposto, e da allora vive con penuria di mezzi fuori dalla Grecia, anche se questa è poi tornata in "democrazia".
Non possiamo, infine, non ricordare un re, anzi, un principe, che piuttosto che emulare i Savoia rifugiandosi dalle parti del lago di Albano o in un più sicuro eremo appenninico preferì rimanere nella Città eterna, esponendosi alle stesse sofferenze ed agli stessi rischi dei propri “sudditi”, facendo l’impossibile per venir loro in aiuto. Papa Pio XII ricoprì di fatto, durante l’occupazione nazista di Roma, il ruolo di massima autorità politica italiana.
Io penso che la monarchia, ma soprattutto il monarca (uomo o donna poco importa) che ne personifica l’istituzione, non solo rappresenti il garante per i diritti delle popolazioni che governa ed il massimo arbitro super partes delle varie fazioni politiche o di interessi vari, ma che costituisca il principale presupposto dell’esistenza di una nazione in quanto tale e della relativa stabilità.
Prendiamo, come esempio contrario, l’Italia. Può definirsi nazione un’entità statuale nella quale la sua area geografica più ricca ed industriosa esprime un partito non piccolo a forte propensione secessionista? Quale unità può esserci se le tre massime cariche istituzionali, che oggi sono l’espressione di un solo gruppo di elettori, giocano contro la parte avversa come qualunque segretario politico, favoriti in questo da una magistratura che a sua volta spacca gli italiani quanto a consenso? Quale coesione sociale potrà essere mantenuta in un contesto sempre più caratterizzato da un’immigrazione inintegrabile e necessariamente assistita (per mancanza di opportunità lavorative per gli stessi autoctoni), ma fortemente voluta da una certa fazione politica in questo costantemente spalleggiata dalle tre massime cariche istituzionali?
Ma, soprattutto, come può definirsi nazione un’entità statuale nella quale circa la metà dei cittadini non si sente rappresentata né garantita dal presidente della repubblica?
Sarà forse esagerato dire che siamo all’8 settembre 1943, ma ritorniamo per un attimo a quei giorni. Circa un mese e mezzo prima l’andamento disastroso della guerra aveva condotto il Gran Consiglio del Fascismo ad approvare l’ordine del giorno di Dino Grandi che ebbe, come effetto, la fine del potere di Benito Mussolini e l’arresto di quest’ultimo. Naturalmente, Vittorio Emanuele terzo aveva approvato. Il nuovo governo, guidato da Pietro Badoglio, aveva da subito cercato di trattare l’armistizio, firmato il 3 settembre nella frazione Cassibile di Siracusa e reso noto cinque giorni dopo. Il 9 settembre vi fu la precipitosa ed ignominiosa fuga da Roma del re, del governo con il maresciallo Badoglio in testa, e dei vertici militari. Nel giro di poche ore, in Italia l’Autorità si era praticamente dissolta.
Solo due istituzioni, tra loro diversissime ma fortemente accomunate dallo stesso spirito di servizio, seppero tenere: la Chiesa e l’Arma dei Carabinieri, non a caso le istituzioni tuttora più amate nel nostro Paese.
Il ruolo della Chiesa non fu solo di tipo umanitario (come per l’aiuto fornito agli ebrei ed a quanti, pur non essendolo, si trovavano nel mirino delle SS), ma anche politico: vi furono, infatti, diverse trattative tra il Vaticano ed il comando degli occupanti tedeschi.
L’Arma dei Carabinieri non subì la stessa sorte dell’Esercito dopo l’8 settembre: la sua presenza sul suolo nazionale fu assicurata ove possibile, e diede un contributo significativo (considerati i mezzi a sua disposizione) al mantenimento, se non di un vero ordine istituzionale, almeno dell’idea che esso fosse nonostante tutto garantito. L’eroico – e qui l’aggettivo ci sta tutto – sacrificio di Salvo d’Acquisto non è soltanto un estremo atto di generosità per la salvezza della vita di civili innocenti: rappresenta primariamente l’accettazione più responsabile del proprio ruolo e dei doveri che ne conseguono, ruolo che nel caso del valoroso brigadiere napoletano poco più che ventenne era quello della massima autorità dello Stato su quel territorio.
Se la Chiesa e la Benemerita poterono operare con un discreto successo non fu soltanto grazie alle notevoli capacità ed ai valori che le caratterizzavano e le caratterizzano ancor’oggi: fu anche grazie al riconoscimento, di fatto, che gli italiani tributavano loro, quali soggetti rappresentativi della nazione, in quel momento storico così particolare.
Non posso dire che la situazione italiana odierna sia tale quale quella del post armistizio, però si avverte una profonda crisi delle istituzioni in un quadro di conflittualità politica decisamente sfavorevole, quasi di guerra civile fredda tra più fazioni. Contrariamente a quanto succedeva dopo l’8 settembre 1943, oggi nessuna istituzione al potere gode dello stesso ampio riconoscimento da parte dei cittadini.
Io vivo con forte preoccupazione l’assenza di un fattore unificante che non sia soltanto la Nazionale di calcio o la Ferrari, e sono scettico sul cambiamento radicale della situazione odierna nell’attuale quadro politico-istituzionale. Sono invece persuaso che soltanto nel nuovo Regno d’Italia riusciremmo a venir fuori dalle sabbie mobili della globalizzazione, dell’euro e del multiculturalismo, in tempi più rapidi e con assai minori tribolazioni e fatiche.
La monarchia non è soltanto il vertice piramidale della coesione sociale, l’istituzione nella quale ci si identifica maggiormente, o il garante dei diritti del popolo. Essa porta con sé una significativa ricaduta: la valorizzazione della famiglia. Certo, non siamo ingenui, sappiamo benissimo che la fedeltà non è una dote di cui sian colmi (parafrasando de André) i re e le regine, ma la tenuta sia pure forzata e sofferta dei matrimoni reali è comunque un innegabile stimolo per il rafforzamento a livello nazionale di tale fondamentale istituzione.
Chi potrà regnare in Italia? Non penso ai Savoia, né a qualche loro ramo collaterale. Uomo o donna, il nuovo monarca dovrà essere espressione della volontà popolare, dovrà essere cristiano, italiano, non legato alla politica, non dovrà possedere attività produttive. Naturalmente non dovrà essere ripristinata la nobiltà, i figli dei sovrani avranno l’unico diritto nobiliare di poter succedere al trono sulla base dell’ordine di nascita; per il resto, i rampolli reali dovranno godere degli stessi diritti e doveri di tutti gli altri cittadini.
Ma, innanzitutto, il re (o regina) dovrà essere dotato dei necessari poteri per proteggere la nazione da qualsivoglia tentativo eversivo degli altri organi dello Stato.
Purtroppo non riesco a vedere per l’Italia un futuro di teste coronate. Continueremo a dividerci. E, di conseguenza, ad essere calpesti e derisi ancora a lungo.