Non dimenticheremo facilmente quello che è successo al nostro amico Sherif Azer  a Torino , il 18 e il 24 luglio 2013. E non solo per l’aggressione reiterata subita da lui, cittadino italiano, egiziano d’origine, ad opera di fanatici islamici intolleranti della fede cristiana di Sherif, bensì per la sensazione inespressa, ma presente in tanti  di noi, che un fatto del genere, se non ancora accaduto, potesse ormai accadere, anche in Italia.

Come da tempo succede purtroppo in tante parti d’Europa, in forme diverse, ma  pur sempre espressioni ricorrenti dello stesso problema. Un fatto, quindi, che non avrebbe sorpreso l’opinione pubblica più di tanto, proprio per il latente presentimento che il quel tipo di violenza cristianofoba avrebbe trovato, prima o poi, l’occasione per manifestarsi anche qui.

E’ toccato a Sherif, la cui notorietà e l’impegno  profusi  a sostegno dei cristiani copti, potevano certo attirare su di lui attenzioni malevole di prevedibile provenienza. Ma poteva capitare a chiunque altro, in ogni parte d’Italia, per i più vari motivi o pretesti. Né sappiamo se fatti del genere siano già accaduti e siano passati sotto silenzio, secondo le regole non scritte di un “politicamente corretto” settario e complice, che stabilisce che cosa vada stigmatizzato e che cosa ignorato o sminuito.

D’altronde, anche nei confronti di Sherif Azer, una  parte dei media, anche di matrice cattolica, ha osservato un “poco religioso” silenzio. E non è un bel segnale. Che  accentua, anzi, una sgradevole sensazione di insicurezza, seppur razionalmente respinta in nome di una speranza di tempi migliori, in nome di una volontà tesa a contrastare paure irrazionali e controproducenti.

Non è più una novità, però, che in Italia vi siano da tempo pubblici personaggi  posti sotto protezione dalle forze dell’ordine, perché esposti a minacce terroristiche di matrice analoga a quella sopra citata. Non sorprende, quindi, che anche in riferimento alla duplice aggressione a Sherif, qualcuno abbia detto: “C'era da aspettarselo”. Una previsione che prima di essere motivata dalla crescente presenza del fanatismo e del fondamentalismo islamico all’interno delle comunità di immigrati musulmani in Italia (rappresentati perlopiù da brava gente laboriosa e pacifica) trae spunto ed origine dalle modalità con cui  i pubblici poteri hanno mostrato di non volere o sapere governare il flusso migratorio. Soprattutto in riferimento al  controllo e alla prevenzione del pericolo costituito dall’integralismo islamico, mimetizzato e occultato all’interno di un’ingente massa di persone.

Va ribadito che il problema ha una rilevanza non solo italiana, ma continentale. Anzi in Italia la conflittualità politica e sociale connessa a problemi di integrazione, non ha raggiunto ancora i  livelli allarmanti presenti altrove. Molti paesi europei devono fare i conti con una presenza  islamica  di difficile gestione.  Dopo aver accettato con infinita tolleranza una sorta di invasione apparentemente pacifica, cominciano ora, tardivamente, a prendere provvedimenti, tanto meno efficaci, quanto maggiore è stato l’afflusso di migranti, nonché imprevidente e lassista l’atteggiamento pregresso dei governi. Ma ora anche l’opinione pubblica, la massa dei cittadini autoctoni, comincia a premere sulla politica locale, per i disagi di una convivenza sociale sempre più difficile e conflittuale.

In ogni caso qualcosa si muove e riporta all’attenzione della gente certi accordi internazionali fra paesi occidentali e arabi, che già dai primi anni '70 favorirono e incentivarono intenzionalmente un’immigrazione islamica di massa in Occidente, in cambio di reciproci vantaggi economici prevalentemente incardinati sull’interscambio petrolifero, stipulati a patto, però, che agli immigrati i paesi ospitanti non richiedessero o imponessero alcuna forma d’integrazione.

L’Europa da quarant’anni ormai è in balia di un “disegno” politico ed economico, ignoto alla stragrande maggioranza dei cittadini europei, che tende a sostituire la stessa realtà antropologico-culturale del continente, con un’altra più consona alle attese e alle mete non dichiarate dei cosiddetti “poteri forti”, e cioè quelli economico-finanziari di pochi potentissimi  “manovratori” della globalizzazione. Ce ne siamo accorti con decenni di ritardo, e sarebbe il caso che svegliassimo l’attenzione di chi ancora non se n’è accorto.

Anche la disavventura di Sherif, per quanto circoscritta e limitata ad un episodio apparentemente marginale, di ordinaria cronaca locale, assume un significato di rilievo ben superiore a quello rappresentato dai disagi e dalle tensioni del quartiere multietnico di Porta Palazzo, a Torino. E’ un chiaro segnale alla società, alla politica, ai pubblici poteri. E noi cittadini, in perenne attesa della saggezza di un governo capace e attivo che sappia risolvere i nostri problemi, che possiamo fare? Quale può essere il nostro contributo, per quanto limitato?

Risparmio a chi legge le considerazioni che vorrei fare sulle condizioni della partecipazione democratica in Italia e in Europa. Quando mi preparavo ad affrontare la mia professione di Dirigente Scolastico, coloro che mi  insegnavano il complesso mestiere di amministratore di un pubblico servizio, mi ripetevano, con una antica formula, che i pilastri del mio futuro impegno dovevano essere tre: vedere, prevedere, provvedere. Cioè: saper interpretare le criticità e i problemi, prefigurare i possibili sviluppi, intervenire tempestivamente e concretamente con azioni finalizzate allo scopo da conseguire.

Vale per ciascuno di noi, anche nel ruolo di “semplice” cittadino, in una democrazia partecipata, prima che ce la “scippino”. Possiamo e dobbiamo votare, manifestare, partecipare, reclamare, testimoniare. E soprattutto non lasciamo soli gli “Sherif” di casa nostra. Per la parte che ci compete, nessuna resa, nessuna rassegnazione. Abbiamo aperto gli occhi in ritardo. Ma ora che abbiamo cominciato a “vedere”, procediamo, da persone libere e responsabili, prevedendo e provvedendo.