La ricorrenza annuale della “liberazione” mi riporta a confrontarmi con la memoria di eventi vissuti. Capita a molti della mia generazione: ci riscopriamo testimoni di storia, e per la nostra parte, protagonisti di un’epoca. Testimoni e protagonisti: attivi, o secondari, o minimali, inconsapevoli. Abbiamo percorso, passo passo, forse non una sola, ma più epoche successive, comprese in poco più di tre quarti di secolo: così tante, tanto diverse. E nel confronto con quel che succede oggi, tanto terribilmente simili.
Comincio da una riflessione, recente. Visito un cimitero di guerra alleato, alla periferia di Milano. Lì riposano 417 militari del Commonwealth, caduti nel periodo 1943-44. Leggo su una lapide: “Known unto God”. Significa “conosciuto da Dio”. Noi, in italiano, avremmo scritto “ignoto”. E non è proprio la stessa cosa.
Penso ad un più denso significato, e a tanti altri combattenti della seconda guerra mondiale, militari e non. A chi è morto su un fronte o sull’altro, per un’idea o per il suo contrario, consapevoli o no di essere nel giusto, forse dubbiosi o pentiti. Penso a scelte e drammi di coscienze diverse svanite nel nulla, a noi ignote come quel caduto. “Known unto God”. Solo Dio lo sa.
E mi rivedo bambino. Con la mia sorellina assisto a distanza ad un evento di cui non posso cogliere la portata. Sono a Vigolante, presso Parma. Con la mia famiglia siamo sfollati per la guerra nella casa di campagna dei nonni. E’ posta al termine d’una stradetta campestre, ora intitolata al mio nonno materno: via Chierici. Oggi posso individuare con precisione il giorno e l’anno dell’evento, anche perché ho un archivio domestico di documenti, foto e cimeli, cui attingere per ricostruire e verificare i ricordi. Con la mia sorellina sono nel giardino di quella casa, presso la siepe che lo chiude sul lato che guarda verso Parma. Da lì assisto in pieno giorno ad un bombardamento aereo sulla città, laggiù, lontano, oltre i campi. E’ il 25 maggio del 1944. Nell’eco dei boati, vedo alzarsi alte dense nubi di fumo di color rosso mattone. Mesi dopo quei fatti, girando per la città, imparerò anche l’odore dei bombardamenti: un sentore acre e pungente, mai dimenticato, che si sprigiona dalle macerie, mentre le facciate delle case hanno le occhiaie vuote di finestre senza infissi, che mostrano l’azzurro del cielo dall’altra parte, perché non c’è più il tetto, né la casa dietro.
Immagini simili a quelle che ancora oggi vediamo in tv, nei reportage di guerra, da Aleppo e dalle città distrutte della Siria. Ma tornando a ciò che osservo dal giardino, in quel giorno di maggio del 44, noto fra le lontane nuvole rosse il volteggiare di aerei dalla singolare architettura. Sono aerei a “doppi travi di coda”, mai visti prima, pur avendo visto già tanti altri aeroplani che mio padre, allora sergente maggiore dell’aeronautica, in più occasioni mi aveva indicato e insegnato a conoscere, lasciandomi così una passione per gli aerei che dura tutt’ora. Anche quegli aerei, che erano caccia Lightning americani in dotazione anche alla RAF, e la loro presenza nel cielo di Parma, mi portano poi, da adulto, ad individuare la data, perché in quel giorno si pone un evento significativo in cui radica la riflessione su cui qui mi soffermo.
I fatti che ora racconto li conobbi poi, negli anni. Nella tarda mattinata di quel 25 maggio 1944, scortati da 40 caccia Lightning, comparvero ad alta quota su Parma 100 bombardieri angloamericani “Liberator”. Erano tanti quanti ne bastavano per cancellare la città e i suoi abitanti. Curiosamente si chiamavano proprio “Liberator”, liberatori, e in coerenza col nome preparavano la Liberazione, dovuta infatti in parte preponderante al massiccio intervento alleato. Un intervento che aveva già inferto incalcolabili danni e lutti a tante città d’Italia, come ad esempio Milano, distrutta al 40% dai massicci bombardamenti “liberatori” del luglio ’43, con spezzoni incendiari. Orbene di fronte all’imponente comparsa nel cielo di Parma di quegli aerei, una decina di aerei da caccia in parte italiani, della RSI, e in parte tedeschi di stanza negli aeroporti della zona, si alzarono in volo per contrastare i 140 aerei alleati ,nel disperato tentativi di ritardare ed evitare la distruzione totale della città, in un impari e disperato confronto. E ci riuscirono: in 10 contro 140, in un lungo, feroce e insistito combattimento limitarono i danni dell’incursione alleata, altrimenti letale per la città e i preziosi monumenti del suo centro storico.
Tra i piloti italiani si distinse Vittorio Satta, 24 anni, che sul suo Macchi 205, non limitandosi ad attaccare i bombardieri, affrontò direttamente la caccia nemica. Nell’impari lotta, iniziata alle 12,50, rimanevano in cielo alle 13,15 solo tre aerei italiani che continuavano a duellare. L’aereo di Vittorio Satta fu colpito dal pilota di un Lightning, il tenente americano Jack D. Lewis, la cui testimonianza fu preziosa per confermare l’eroismo di Satta. Il pilota italiano, raccontò Lewis, avrebbe potuto lanciarsi col paracadute, invece fu visto manovrare l’aereo trafitto da decine di colpi per non lasciarlo cadere sulla città, pilotandolo in una velocissima discesa verso i campi esterni all’area urbana. Voleva riuscire a condurre il velivolo, danneggiato al limite estremo della governabilità, prima che diventasse incontrollabile, oltre l’abitato benché i Lightning ancora lo inseguissero mitragliandolo. L’impatto sul terreno a velocità pazzesca lasciò solo alcuni frammenti metallici sul terreno morbido e acquitrinoso presso San Prospero, ma dell’aereo i cittadini accorsi sul luogo non videro praticamente nulla. Ritrovarono l’aereo a sette metri di profondità sotto terra solo 56 anni dopo, nel novembre del 2000. Sette metri sotto terra, a testimonianza della velocità e della violenza dell’impatto. C’erano ancora i resti del pilota, seduto al suo posto. Dopo tutti quegli anni era stato deciso di effettuare uno scavo nel punto d’impatto, perché era rimasta viva nei testimoni oculari di quella battaglia l’impresa dell’eroico pilota. Ma nessuno, per tanto tempo, aveva sostenuto la proposta dei suoi commilitoni di ricercarne i resti. Comprensibilmente, direi, perché la città restava e resta saldamente legata al ricordo dell’epopea partigiana, e ai suoi martiri. Parma, da sempre rossa e certo poco disponibile nei confronti di chi aveva vestito una divisa della RSI, rese però alla fine dignitosamente onore a Satta. La memoria di chi aveva difeso la sua terra e la sua gente fino all’ultimo attimo di vita era stata tramandata oralmente dai vecchi ai giovani per mezzo secolo, pur nell’ovvio silenzio delle annuali celebrazioni ufficiali in memoria dei caduti della guerra e della Resistenza. Sarebbe stato difficile, prima, riconoscere i meriti di chi, difendendo tanti inconsapevoli parmigiani al prezzo del proprio personale sacrificio, aveva salvato la città dai suoi “liberatori”. I grandi, quelli veri, lo furono “a loro insaputa”, e nostra. Quale la loro coscienza, gli ultimi pensieri, il loro credo ? “Known unto God” . Solo Dio sa.
La Liberazione segnò una separazione cronologica dalla guerra e dal totalitarismo, ma non la loro scomparsa dal mondo. Né avrebbe potuto, o voluto. Oggi, in tempi tanto diversi e così simili, altri bambini, quelli sopravvissuti in paesi tormentati da conflitti, guardano a distanza scene di guerra, turbati o incoscienti, come il piccolo Vittorio Z., 73 anni fa , a Vigolante. Incombono sull’umanità le minacce d’una guerra mondiale di nuovo genere, mentre presente e passato paiono confondersi. A quelli come me gli eventi dicono tristemente che bisogna ricominciare daccapo, ciascuno forse più solo di fronte a scelte e drammi della coscienza disillusa, e Dio solo sa quanto. Ma battere la disillusione è la sfida di oggi. E altro non ci resta da fare. Contro la sottomissione, per un’altra Liberazione.