Di ponti e di muri sentiamo parlare ogni giorno, da anni. E’ sempre il solito pistolotto retorico in cui si cimentano un po’ tutti, in tv, in chiesa, nelle piazze, nei partiti e nelle sedi istituzionali nazionali e internazionali. E secondo le regole non scritte del pensiero unico dominante i due termini architettonici a confronto, usati come metafore, sono uno irrimediabilmente cattivo e l’altro indiscutibilmente buono. O almeno così pareva fino a qualche tempo fa.
In epoca di relativismo c’è da chiedersi però fino a quando l’immagine di questi “manufatti”, tanto evocata come fantasma ammonitore e grimaldello ideologico dai manipolatori di coscienze, possa ancora reggere al logorio delle mode. Nonché al mutare degli slogan, con cui si vuole impedire alla gente di affaticarsi a pensare “in proprio”, per scegliere in autonomia. E’ questo il tempo delle “scelte non scelte”, imposte dal potere e dalla sua propaganda come indiscutibili e buone, ma curiosamente camuffate con facili metafore. Anche le metafore, però, diventano obsolete.
Orbene i muri, metaforici o no, “non sono buoni”. Anzi sono cattivi. Anche l’Europa l’ha detto. E il presidente ungherese Orban è stato additato alla pubblica riprovazione per la barriera anti-immigrati che ha fatto erigere. Intanto però l’Inghilterra, col consenso della Francia, sta costruendo un muro anti-immigrati sul territorio francese, a protezione degli accessi al tunnel sottomarino del Canale della Manica. Si dirà che i migranti rischiano la vita avventurandosi furtivamente nel tunnel, per raggiungere il Regno Unito. Forse si tratta di un “muro umanitario”, quindi “ buono”. L’eccezione è sempre ammessa. Negli USA di Obama, invece, la lunga barriera che ostacola l’immigrazione dal Messico non pare costituire motivo di esecrazione. O, quanto meno, sui “media” si preferisce parlarne poco. Forse c’è muro e muro. O forse la differenza sta in chi lo fa.
Poi, detto a margine, c’è anche il Muro del Pianto a Gerusalemme che vive una vicenda paradossale. Infatti questo Muro, ma anche il luogo in cui sorge, ha un nome “buono”, che è quello che gli hanno dato gli arabi, e uno “non buono” che è quello assai più antico con cui lo appellano gli ebrei. Il tutto secondo una recente pronunzia dell'Unesco. Senza voler mancare di rispetto a nessuno, c’è da batter la testa nel muro. E qui si dovrebbe fare una digressione sulla “retorica dell’odio”, sempre esecrabile, salvo che per gli odiatori di Israele, che paiono gli unici ammessi. Ma questa tema lo tengo in fresco, per altra occasione.
In quanto ai ponti, questi sono “indiscutibilmente buoni”, come pare sia obbligatorio affermare. Relativamente obbligatorio. Sarei più cauto sul ponte dello Stretto di Messina, oggetto di opposti giudizi. Chi lo rifiutava, perché lo voleva la destra, ora lo ripropone da sinistra. E viceversa. Anche ideologicamente è un ponte sospeso. Personalmente apprezzo i ponti levatoi (non solo quelli dei castelli: pensate al Tower Bridge di Londra), i ponti girevoli presenti in alcuni porti, e comunque non immobili, per la loro polivalenza funzionale. Ponti e muri, unire e separare, non sono cose buone o cattive in sé stesse, ma solo in riferimento agli scopi, all’opportunità, al bene comune, alla giustizia.
E proprio la giustizia è il nodo. Infatti, la retorica dei ponti e dei muri è prevalentemente usata per infierire sulle vittime delle ingiustizie, ma poco sui veri responsabili, come dirò più avanti. Allo stesso scopo si usa, o si abusa, del termine tolleranza, che è “ponte “ se c’è e “muro” se manca. E’ tanta la tolleranza evocata nei discorsi sui migranti, i rifugiati, i rom, i diversi a vario titolo, il tutto infuso e soffuso dal tenero afflato dell’accoglienza. Verso cui ci sospinge naturalmente, e va detto, una nostra antica propensione all’ospitalità, alla carità, all’attenzione verso il prossimo. Ma la benevolenza della buona gente è per i manipolatori e i profittatori uno spazio di deboli difese da debellare o, peggio, strumentalizzare.
Il termine tolleranza ha indicato per secoli l’atteggiamento di chi fronteggiava pazientemente avversità, opinioni non condivise, mali transitori, contrasti di varia natura non evitabili nell’immediato e quindi da sopportare per non incorrere in danni maggiori. Si sopportava ciò che non si stimava e non si amava e ciò che in qualche misura era un male, nella consapevolezza che la tolleranza, di per se stessa, non potesse mutare il male in un bene, ma comunque servisse per gestire l’intoppo. Ne derivava la percezione della tolleranza come una virtù pratica, ispirata alla prudenza, che necessita di tempi adeguati attraverso i quali differire l’esito d’una questione, se risolvibile, o il suo superamento, scansando l’ostacolo, se insolubile. Nella storia del pensiero occidentale il concetto di tolleranza è però mutato nel tempo attraverso l’interpretazione che ne hanno dato tanti maestri, come John Locke, Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Pierre Bayle, Voltaire e l’illuminismo in genere. Tappe e passaggi del pensiero, su cui chiunque voglia approfondire o verificare, può tornare a documentarsi.
Per brevità, però, vediamo che cos’è diventato oggi il concetto di tolleranza, evocato spesso assieme con quello di accoglienza, in riferimento al fenomeno dell’immigrazione. La compresenza nello stesso paese di donne e uomini, immigrati ed autoctoni, diversi per lingua, tradizioni, valori di riferimento e leggi morali è inevitabilmente fonte di contrasti. Spicca per problematicità il confronto col mondo islamico. Le leggi vigenti e il concetto stesso di legalità presente nel mondo occidentale è da tempo entrato in rotta di collisione con i principi giuridici legati alla sharia. Basti pensare all’inferiorità della donna rispetto all’uomo o alla legittimazione islamica dell’uccisione sia del convertito ad altra religione, sia degli “infedeli” in genere. In questo caso la tolleranza, che ci viene richiesta, si configura come accettazione acritica della compresenza nello stesso ambito territoriale ed umano di culture, regole e comportamenti inconciliabili.
Ci sono governi che tendono ad imporre autoritariamente come doverosamente e obbligatoriamente condivisibili sia l’accoglienza sia la tolleranza. L’accoglienza necessiterebbe almeno della condivisione maturata, autonoma, convinta, sentita e cosciente, anche se promossa e sostenuta dalle istituzioni, dei soggetti chiamati, ma non forzati, a condividere spazi e risorse scarse con i nuovi venuti. Questo, in un contesto di democrazia e partecipazione vissuta, può essere accettabile. Ma diventa inaccettabile, se sotto forma di imposizione, quindi con poca o nessuna condivisione democratica, si riversa sempre sugli strati popolari più disagiati, sulle realtà ghettizzanti di periferie degradate o si realizza in forme di palese ingiustizia con una attenzione alle esigenze dei nuovi venuti, che è però negata a tanti italiani bisognosi.
E l’esortazione alla tolleranza, a fronte di fenomenologie comportamentali umane, radicate negli ambienti socioculturali d’origine di certi cosiddetti migranti, ma non per questo accettabili nell’ambito valoriale dei paesi accoglienti, diventa di fatto la “tolleranza dell’intollerabile”. Tant’è vero che i paladini di questo tipo di tolleranza, non tollerano nemmeno le critiche al loro modo di concepirla. Tornando alla radice, la responsabilità del problema non è dei migranti, ma di chi, preposto ai pubblici poteri, impone ai cittadini le conseguenze di un’accoglienza disorganizzata, caotica e incontrollabile, ovviamente gravida di difficoltà e contraccolpi.
E per giunta poi accusa di razzismo, xenofobia ed intolleranza i cittadini spazientiti che protestano, perché costretti localmente a fronteggiare disagi o conseguenze non condivisibili. Non è una “tolleranza virtuosa” quella che si va palesando, ma è una versione strumentale e politica, quindi mistificata, della tolleranza, pericolosamente atta a realizzare imposizioni totalitarie e a indurre nuovi tipi di esclusione e di ingiustizia. Una pseudo-tolleranza che finirà per generare una società ideologicamente intollerante e forse c’è già riuscita.
Oltre all’arroganza di un potere che impone le sue scelte e insulta chi non le accetta mi infastidisce la retorica di certi intellettuali da salotto che rincarano la dose delle accuse di xenofobia e razzismo a carico di chi i problemi portati dall’immigrazione li subisce senza alcuna tutela. E li accusa, come ha fatto un noto personaggio, di regresso civile e “di ritorno alla cultura del nemico”. In una guerra tra poveri, come quella ormai in atto, il povero ulteriormente impoverito individua il nemico nel migrante, come responsabile visibile del disagio che ingiustamente patisce, e non lo vede, purtroppo, in chi manipola i fenomeni economici e migratori in atto, entrambi legati e indotti da vasti e mal dissimulati interessi politico-economici globali, cui certi governi sono asserviti.
Una “cultura del nemico” attribuita a chi, portatore di scarsa consapevolezza della propria identità culturale, può individuare come metro di giudizio per un auto-riconoscimento identitario solo il confronto di se stesso con le diversità apparenti o reali di un oppositore concreto e visibile. Anche questo mi pare un modo spocchioso per colpevolizzare delle vittime, invece di richiamare doverosamente le responsabilità del potere costituito, che riversa sui cittadini ridotti a sudditi politiche e strategie di cui dovrà prima o poi render conto. Assai peggiore di questa discutibile “cultura del nemico”, imputata al cittadino vessato, è per me l’esibita “identificazione col nemico” dei “giustificazionisti” di mestiere, che vogliono sorprendere l’uditorio, e guadagnarsi visibilità mostrandosi controcorrente e fuori dagli schemi, collocandosi a parole sull’altro versante della barricata. Affetti da permanente xenofilia “oicofobica”, questi non meritano nemmeno i trenta denari del traditore.