E' la “globalizzazione dell'indifferenza” la radice del nostro male? Ed è ugualmente un male la “cultura del benessere”? La denuncia fatta da Papa Francesco a Lampedusa trascura, a mio avviso, il fatto che l'indifferentismo, ovvero un'ideologia o un comportamento che porta a ignorare la sofferenza o comunque il vissuto altrui, è figlia della “dittatura del relativismo”, magistrale concetto elaborato da Benedetto XVI.

Queste sono le parole pronunciate da Papa Francesco nella sua omelia alla messa celebrata a Lampedusa l'8 luglio:

“La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”.

L'indifferentismo è una conseguenza del relativismo. Solo se non abbiamo più riferimenti valoriali, sul piano delle regole, legali e identitari, finiamo per assumere dei comportamenti di alienazione rispetto alla realtà nostra e altrui. Solo se siamo fragili dentro perché non abbiamo più la certezza di chi siamo, sul piano delle nostre radici, fede, valori, identità e civiltà finendo per concepirci come una sorta di landa deserta dove la nuova civiltà si ridefinisce giorno dopo giorno come sommatoria quantitativa delle istanze di tutti coloro che per scelta o casualmente condividono lo stesso spazio fisico, finiamo per “cosificarci” (straordinario neologismo coniato da Benedetto XVI), immaginandoci come semplici strumenti di produzione e consumo della materialità e non più persone depositarie di “valori non negoziabili” (il concetto portante del messaggio sociale di Benedetto XVI) che si sostanziano del diritto inalienabile alla vita, alla dignità e alla libertà.

Così come non sono d'accordo che la “cultura del benessere” sia da considerarsi di per sé un male che genererebbe la “globalizzazione dell'indifferenza”. Il benessere è un legittimo, assolutamente doveroso, traguardo che ciascuno di noi e la società nel suo complesso devono porsi e a cui aspirare. Ovviamente il benessere è da intendersi letteralmente come uno stato di soddisfacimento dei propri bisogni materiali e spirituali, cosa sostanzialmente diversa dal consumismo e dallo spreco delle risorse.

Colgo l'occasione per evidenziare che sono totalmente contrario al pauperismo, ossia a una ideologia che concepisce la povertà come un valore da coltivare e a cui tendere. La povertà, inteso come privazione dei beni necessari alla propria sopravvivenza o comunque ad un tenore di vita dignitoso, è assolutamente un male da cui i singoli e la collettività devono affrancarsi.

Diverso è il discorso della sobrietà, ossia dell'avere ciò che serve alla propria vita senza sperperare dei beni e delle risorse che, direttamente o indirettamente, vengono sottratte alla collettività. Sono ovviamente favorevole a una vita sobria, ma non al pauperismo, specie in un momento in cui gli italiani sono costretti a diventare poveri perché le imprese sono costrette a chiudere a causa della dittatura finanziaria praticata dalle banche, dallo Stato e da questa Unione Europea.